Nordamerica,
1823. Il cacciatore-esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) mette in salvo il
manipolo di pellai per cui lavora dall’attacco della tribù degli Arikara. L’unica
via relativamente sicura per tornare al campo base è quella terrestre. In testa
al gruppo, alla ricerca della strada giusta, Glass s’imbatte in una femmina di
grizzly con piccoli al seguito: attaccato alle spalle, viene gravemente ferito
e ridotto in fin di vita. La compagnia non può attendere. Il capitano incarica
due dei suoi di assisterlo per quel poco che gli resta e dargli degna
sepoltura. Peccato che uno sia John Fitzgerald (Tom Hardy), ex soldato violento
e razzista, intenzionato soltanto a intascare i soldi promessi per questo
incarico supplementare. Ovviamente Glass verrà abbandonato al suo destino.
È
una storia di morte, rinascita, sopravvivenza e vendetta quella tratta dall’omonimo
romanzo di Michael Punke e ispirata al trapper
realmente esistito, figura però di consistenza più leggendaria che storica.
Scritta
dal regista e da Mark L. Smith, la sceneggiatura costringe lo spettatore ad
abbassare la soglia di sospensione dell’incredulità in un paio di occasioni e
si concede dei flashback apparentemente poetici, che nei migliori casi
arricchiscono il retroterra del protagonista, nei peggiori abbassano il ritmo.
In essi i richiami a Malick sono solo apparenti: qui non si tesse un elogio
della natura vivente per immagini (tutto è ostile quanto i nemici umani). Ma il
respiro della trama è ampio e l’epicità dei fatti è amplificata dalla bravura di
Alejadro G. Inarritu, che coadiuvato dall’eccezionale operatore Emmanuel
Lubezki (2 Oscar), muove la macchina da presa così da rimpicciolire la figura
umana tra i paesaggi o da starle incollata (con evidenti grandangoli) fino a
‘soffocarla’ nell’inquadratura insieme allo spettatore. Il tutto è servito in coinvolgenti
piani sequenza (l’incipit sembra uscito da un Salvate il soldato Ryan di frontiera) o in frangenti che sanno
quasi di real tv. Le musiche di
Sakamoto – ansiogene, minimaliste ed evocative – fanno il resto. Al netto,
potrebbe quasi essere un nobile parente della Passione di Cristo o Apocalypto
di Mel Gibson, girato però come se fosse un Gravity
“into the wild”: l’imperativo è sopravvivere.
Girato
in buona parte in Canada in condizioni proibitive (fino a -40°), in digitale e
con luci naturali al costo di 135 milioni di dollari, non privo di riferimenti
a western più o meno recenti (tra cui Uomo
bianco, va' col tuo dio! con Richard Harris, basato sulla stessa vicenda), The Revenant vive di vita propria grazie
al taglio postmoderno della regia. La sola scena dell’attacco dell’orso divora
tutta la computer grafica vista in sala nel 2015.
Dopo
essere stato abbondantemente preso in giro per l’Oscar non vinto per The Wolf Of Wall Street (in cui lui era eccessivo
persino rispetto alla storia) Leonardo DiCaprio porta a casa il Golden Globe
come miglior attore drammatico e punta alla statuetta: da vegetariano, ha persino
dovuto mangiare fegato crudo di bisonte. Talvolta Tom Hardy gli ruba la scena,
anche se il suo personaggio è di una cattiveria monocorde qua e là irritante.
Domnhall Gleeson aggiunge un altro titolo di peso alla sua già rispettabile
filmografia.
CRITICA: ***1/2
CRITICA: ***1/2
VISIONE CONSIGLIATA: A