Ah, il posto fisso. Un miraggio per tanti, oggigiorno.
Uno degli ultimi a goderne – immeritatamente – è Checco Zalone (Luca Medici),
che lo difende come una cozza patella attaccata allo scoglio. Peccato che a
minarlo giunga la soppressione delle Province. Per lui, addetto alle licenze di
caccia e pesca costantemente ingraziato da cestini e omaggi assortiti, è la
fine: non è invalido, non è sposato, non ha neanche una minima motivazione che
gli consenta di restare dov’è, a Conversano (a una trentina di chilometri da
Bari). Non gli resterebbe che capitolare, firmando un trattamento di fine
rapporto con una generosa liquidazione. Ma, guidato dal senatore Nicola Bitetto
(Lino Banfi) – santo protettore che ha regalato il posto fisso a lui e a un
altro paio di suoi parenti – Checco non molla: viene spedito prima in varie
località dello Stivale, poi al polo Nord, tra i fiordi della Norvegia.
L’incarico assegnatogli – il dover garantire la sicurezza di Valeria (Eleonora
Giovanardi), ricercatrice italiana del Cnr – inizialmente lo scoraggia, ma il
bel visino della giovane fa breccia nel suo cuore.
Prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi (leggasi
Mediaset), costato ben 10 milioni di euro e distribuito in 1300 sale (numeri
ignoti persino agli studios hollywoodiani), il quarto lungometraggio
dell’accoppiata Medici-Nunziante non si allontana di molto dai tre capitoli che
l’hanno preceduto. Narrativamente elementare, vanta ancora la voce narrante del
protagonista e – stavolta – una cornice. Di nuovo c’è che la maschera di Zalone
– italiano medio-mediocre, Homer Simpson de
noantri – sembrerebbe subire un’apparente evoluzione. Nei primi quaranta
minuti del film, il personaggio, ammesso che strappi risate, ne strappa di
becere. Inserito in un universo in cui i riferimenti ‘culturali’ sono la sigla
di C’è posta per te (ovvero Love’s Theme di Barry White) e i quiz
televisivi, in cui Margherita Hack fa rima con “fuck”, Checco sfoggia tutto il
suo essere machista, ciuccio e presuntuoso: tratta le donne come serve (dice
alla fidanzata di essere “poco retro-attiva”) e il prossimo con sufficienza. Raccoglie
persino liquido seminale da un orso polare.
L’incontro con la ricercatrice lo spinge però a
migliorarsi: inizialmente si dà alla reinvenzione di piatti tipici pugliesi
(panzerotti per musulmani, buddisti e atei; “riso patate e krill”), poi si
rende conto che la vita da cittadino responsabile è preferibile a quella da
‘furbetto’. Finisce così per rispettare le code, attende il verde ai semafori,
raccoglie le cartacce da terra. Ma cosa postula la sceneggiatura firmata dal duo
barese? Che quello del buon vivere civile è un gioco al quale l’italiano medio
non può giocare, perché è incompatibile con la sua natura. A Checco basta rivedere
in tv Al Bano e Romina sul palco di Sanremo per sentire nostalgia di casa e
tornare ai propri insopprimibili vizi, per rivelarsi qual è. Con questa trovata
cerchiobottista Zalone riesce a conquistare tutti i tipi di pubblico, facendo
ridere chi si sente come lui e chi si crede migliore di lui. Ovviamente non
manca un finale che salva capre e cavoli, con tanto di presunta redenzione. L’unica
vera bellezza, soffocata da un’umanità sciagurata, è quella dei paesaggi (che la regia neanche riesce a esaltare). Che
si tratti della Val di Susa, della Puglia o della Calabria (ove Checco lascia
che si scarichino rifiuti tossici). Una grande bellezza seppellita (di nuovo)
da incassi tanto stratosferici quanto autoassolutori.
CRITICA: *1/2
VISIONE CONSIGLIATA: I
CRITICA: *1/2
VISIONE CONSIGLIATA: I
stratosferici quanto autoassolutori?
RispondiEliminaLa vita è come una bella melodia, solo che le canzoni sono mescolate. Lo si può imparare dai https://altadefinizionenuovo.co film, vero?
RispondiElimina